top of page

L’obiettivo della rubrica

  • 28 lug 2016
  • Tempo di lettura: 6 min

Sono in un’aula. O meglio: sembra un’aula, ma forse è solo una stanzetta con qualche sedia sparsa. Due file di sedie sono rivolte verso la mia, che da sola è vicina al muro. Di fianco a me c’è una scrivania, sulla parete di fronte dei mobili bassi, di legno chiaro.

Le sedie sono quasi tutte vuote. Alla mia destra c’è un ragazzo marocchino, di fronte a me un rumeno e un nigeriano, due ragazze e un uomo tunisino di mezza età sulla sinistra. È il secondo incontro sulla cultura italiana che tengo con gli stranieri con cui la Caritas è riuscita a mettermi in contatto. Sono pochi, ma non ci si può fermare certo per questo.

Sto parlando a braccio, sventolando in tutte le direzioni gli appunti che da cinque minuti ho ormai dimenticato di aver scritto. Il discorso si è spostato da dove lo avevo condotto, così ho aperto una parentesi per spiegare l’obiettivo a cui miro.

«Non ho messo in piedi questi incontri per farvi conoscere la cultura italiana e quindi sperare che voi diventiate bravi italiani. Il mio scopo è resistere: dobbiamo resistere tutti di fronte all'omologazione, altrimenti domani avremmo solo persone atte al consumo, non arabi italianizzati o chi per loro.

I ragazzi diventano amici anche se provengono da nazioni diverse non perché sono più emancipati di noi – cosa che loro credono −, ma perché si riconoscono grazie a degli attributi di consumo: il taglio di capelli, la musica che ascoltano. Non che la mia generazione sia stata meno influenzata dalla pubblicità in TV; anche io mi avvicinavo a qualcuno se aveva una maglietta nera perché immaginavo ascoltasse la musica che mi piaceva. I miei stessi genitori sono cresciuti con una mentalità consumistica e non riescono a ragionare fuori da quell'ottica. Ma la mia generazione quando ha avuto fortuna è cresciuta con quella precedente, quella dei nonni che avevano vissuto la guerra, così siamo potuti entrare in contatto con i valori della cultura italiana. Parlando della mia esperienza, ho scoperto la saggezza propria di chi aveva passato l’inferno e alla fine era arrivato alla conclusione che anche se tutto va a rotoli, tu devi continuare a funzionare, ridere, sposarti, far figli. Ecco da dove nasce quella giovialità che i turisti venuti dal nord Europa attribuiscono a noi italiani: per gente come quella, abituata da molti anni a un’economica florida, angustiarsi per le cavolate è normale, cosa che oggi facciamo anche noi; per persone così incontrare chi sapeva prendere la vita con la giusta leggerezza avrà avuto un certo impatto. Poi in realtà l’italiano medio è perennemente rabbuiato, ridere facendo girare la pizza in aria è uno show che facciamo solo davanti ai turisti, ma questo è un altro discorso.

Mi sono persa, riprendiamo il filo. Dicevo: io faccio questo perché dobbiamo resistere. Perché tuo figlio deve essere un arabo che vive in Italia, non un consumatore infelice perché non vive a Paradise City.

Ecco cosa ci hanno venduto per anni tramite la TV: hanno creato un mondo fittizio basato sull'immaginario inglese e americano, rubacchiando qualche elemento delle destinazioni di viaggio più note, e ci hanno detto: «Esiste una città che si chiama Paradise City, l’unico luogo in cui sarai felice. Per arrivarci devi fare quello che ti dico io: compera le mutande di questa marca, il latte di questa, eccetera.»

Noi abbiamo seguito tali comandamenti, facendo anche sacrifici per arrivare a Paradise City. Non scherzo: le persone hanno lavorato di più per avere i soldi per acquistare le cose di quelle specifiche marche, nella speranza di trovare la felicità. Ma Paradise City non esiste, è un set cinematografico creato per vendere, perciò alla fine ci rendiamo conto che viviamo a Recanati o a – ditemi il nome delle vostre città d’origine …» traccio dei gesti nell'aria in direzione dei singoli presenti.

«Fes»

«Sibiu»

«Kano»

«Le Kef e Madhia.» rispondono in coro le due ragazze, mentre l’uomo al loro fianco mi guarda in silenzio.

« … e ci sentiamo fregati. Ma la pubblicità ha fatto solo il suo mestiere: prometterci un viaggio nello spazio in cambio dell’acquisto dei suoi prodotti, siamo noi gli stupidi che ci siamo vestiti d’astronauti e aspettiamo davanti la porta di casa che ci vengano a prendere. Ci siamo?» In due annuiscono, gli altri continuano a guardarmi.

« Quindi, ricapitolando, io ho chiesto d’incontrarvi e spero di dirvi cose interessanti, che vi facciano venire voglia di tornare, perché possiate conoscere l’Italia. Non per abbracciarne gli usi, ma per riconoscerne il modello culturale. Così, quando arriverà qualcuno che vuole sostituire quel modello culturale con un modello di consumo, voi saprete riconoscerlo e difendere il primo. Non perché la cultura italiana valga tanto, ma perché ogni cultura vale più di un modello di consumo. Anche per questo io vorrei che voi con il tempo interveniste, permettendomi e permettendoci di scoprire la vostra cultura.

Non dobbiamo amarci per forza, questa cosa di dover apprezzare tutto delle altre culture è molto di sinistra, ma di una sinistra marcia, che è profondamente razzista. Pensateci: cosa c’è di più razzista di pensare che una persona sia così sottosviluppata da non poter reggere un commento negativo? “Oh, povero selvaggio, diciamo che tutto quello che ci propone è buono, altrimenti potrebbe offendersi.” A me non piace la musica africana, se facessi un viaggio in Africa e l’ascoltassi durante una visita particolarmente coinvolgente, l’apprezzerei, ma non acquisterei il CD prima di partire, se capite cosa voglio dire.

Non dovete amare la cultura italiana, anche perché essa non esiste, non si può decodificare.

Mi spiego: la vita è caos, ogni lettura di questo caos è semplificazione, una generalizzazione che quindi è falsa. Come se uno entrasse qui dentro e dicesse: “Voglio fare un ritratto che rappresenti tutti voi; per farlo prendo la tua testa, la tua fronte, i tuoi occhi, le cose più carine di ognuno.” Viene fuori un viso impersonale, che però sembra piacevole e quindi avrà più possibilità di essere acquistato.

Questo è ciò che accade se andate a comperare un ricettario di cucina italiana: non esiste la cucina italiana, le ricette tipiche regionali. Nella realtà ogni famiglia, ogni generazione, ha la sua versione di ogni singola ricetta – come si fa la pasta fresca, come si condisce un’insalata mista, come si prepara una macedonia −; ogni luogo ha una sua serie d’ingredienti e metodi che caratterizzano quelle ricette. È falso dire che esiste una precisa cucina italiana. Ok? Quindi non solo non dovrete abbracciare la cultura italiana, ma non potreste farlo perché non esiste.

Siamo qui perché dobbiamo difendere un modello culturale e se chi vive qui, voi, non s’interessa al Paese in cui si trova e dimentica le proprie origini, limitandosi a comperare, chi ci salverà? Gli italiani, che appena possono fuggono all’estero? Ho bisogno che voi siate consapevoli, per salvare luoghi come Ancona, la città che ci sta ospitando, per evitare che ovunque il modello di consumo sostituisca il modello culturale e quindi per evitare che le nostre vite si svuotino sempre di più.

Il modello di consumo è come un libretto d’istruzioni che si focalizza su una sola funzione e che, quindi, ha molte pagine bianche. Quando smetti di comperare, il modello ti lascia in balia di te stesso. Difatti le persone non sanno cosa cercare nell’amore, quando fanno un figlio, quando mettono su un’attività. Si rifanno a quello che vedono sui film, cercano di replicare quelle atmosfere, ma il significato profondo delle loro azioni è ignoto a loro stessi. Un modello culturale, per quanto retrogrado e fuori posto sia – perché quello che ha senso in Africa non ha senso qui e viceversa –, è un punto sensato da cui partire. Poi si può viaggiare da soli, scegliere le proprie regole. Io lo faccio, non condivido molti dei valori del modello culturale italiano. Ma devi avere qualcosa di solido da cui partire prima d’improvvisare, altrimenti rischi di farti molto male. Devi sapere cos’è la cultura rumena, nigeriana, marocchina, perché certe scelte si sono imposte, le loro origini storiche, per quello che ti è possibile conoscere; poi puoi rifiutarle. Altrimenti diventiamo come il peggio che l’America ci mostra in TV: ribelli senza causa. Non sorridete, gli Americani non sono stupidi, quello che arriva a noi è un concentrato del loro modello di consumo, non dei modelli culturali, che esistono e in tanti si adoperano a tenere in vita, dalle comunità creole e cajun che parlano una loro versione di francese e cercano di tenere in vita i loro dialetti a quelle delle minoranze religiose. Ovunque c’è chi lotta per far vivere una cultura invece di un modello di consumo.»

Mi sono fatta prendere la mano? Lo farei, statene certi, se avessi l’opportunità di parlare davanti a un pubblico di stranieri. L’incontro qui descritto non è ha avuto luogo, ma sto lavorando perché avvenga. Le cose non prendono vita in due settimane, con i tempi dei social network; ho progetti che stanno venendo al mondo con la stessa lentezza che impiegherei nel cacare un elefante intero (scusate lo scivolone di stile, ma l’immagine mi sembra la più azzeccata per spiegare la mia condizione di progettista frustrata). Quindi nulla è avvenuto, ma avverrà. Non così, nulla accade mai come l’abbiamo sognato, ma sognarlo nel dettaglio ci permette di far accadere le cose. Se non riesco a sognarlo, non sarò mai in grado di realizzarlo, questa è la mia filosofia. Anche per questo scrivo e tale aspetto della mia scrittura ha radici magiche, quando per magia si parla di fede e vita e non di colombe nascoste nei cappelli.

Tutto sarà diverso da come l’avevo pensato, ma qualcuno siederà su quelle sedie. Che siano immigrati borghesi (tedeschi, americani, belgi) o proletari (rumeni, marocchini, ucraini), io voglio parlarci perché non vedo altre chance per dare a tutti noi un futuro.

Ora conoscete le profonde motivazioni della rubrica intitolata “stranieri in Italia”.

Commenti


Featured Posts
Riprova tra un po'
Quando verranno pubblicati i post, li vedrai qui.
Recent Posts
Search By Tags
  • Grey LinkedIn Icon
  • Grey Facebook Icon
  • Grey Twitter Icon
  • Grey YouTube Icon

    Dafne Perticarini scrittrice cf PRTDFN80L44H211I © 2023 by Samanta Jonse. Proudly created with Wix.com

    bottom of page