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Red in Italy - e gli stranieri?

“Oggi ho incrociato un Tony Manero marocchino che cercava di colpirmi con il suo modo di fumare la sigaretta, una cinese che sembrava uscita da un campus universitario americano, due ragazzi africani che indossavano pantaloni attillati, segno che finalmente la moda di indossare taglie abbondanti sta morendo. E poi gruppi di uomini arabi con la barba lunga, studenti che vanno e vengono lungo i marciapiedi della circonvallazione con la valigia al seguito e la pelle di tutte le tonalità del marrone. Uomini slavi che chiacchierano fuori dai bar, donne pachistane a spasso con i loro piccoli.

Non mi trovo a San Francisco, ma a Macerata. L’aria è tiepida, gli uccellini cinguettano, l’erba delle aiuole è lucida e l’integrazione culturale sembra possibile in questo pomeriggio del 30 marzo 2016.

Mai come oggi ho capito quanto la fauna locale si sia arricchita in questi pochi anni − 20, non di più. Fino a ieri credevo ancora che gli stranieri fossero una fetta marginale della nostra società, oggi ho capito che sono la nostra società.”

Questo lo scrivevo ieri, sedendo nell’aula magna dell’università di giurisprudenza di Macerata. Ero andata in città per assistere alla presentazione del libro In Difesa Dell’Arte, durante la quale sarebbe intervenuto Antonio Paolucci, direttore dei musei vaticani. Muovendomi dal parcheggio al centro non avevo incontrato un italiano per interi minuti e dunque avevo iniziato a osservare la gente che mi veniva incontro.

Qualche ora dopo ho maturato un secondo pensiero: è ora che l’integrazione diventi concreta e che queste persone approfondiscano la conoscenza con la nostra nazione. Se non conoscono l’Italia, come possono capirla?

Quando rivolgo questa domanda al mio compagno, egli mi risponde che in teoria è la scuola a dover occuparsi di questo, facendo delle nuove generazioni d’immigrati degli italiani consapevoli. Ma sua mamma ha insegnato fino a ieri e sappiamo entrambi come stanno realmente le cose: i ragazzi stranieri sono inseriti nella classe corrispondente alla loro età anche se non parlano una parola d’italiano e il risultato finale è lasciato alla buona volontà degli insegnanti, che non sanno se abbandonare il nuovo venuto nella sua bolla linguistica o bloccare l’intera classe nella speranza che si riparta prima o poi tutti insieme. La buona usanza della Germania, di obbligare i nuovi venuti a frequentare un corso di tedesco prima di inserirli nella vita quotidiana, non ci ha contagiato.

Comunque sia, gli rispondo prontamente: «E gli adulti?»

Vorrei non sentire più che le persone usano questo Paese come mero mezzo di sussistenza, un luogo che quando ha problemi si abbandona con risentimento, come è accaduto durante questa crisi economica – comportamento che ha coinvolto tanto gli immigrati quanto gli italiani.

Alla presentazione di oggi pomeriggio eravamo solo italiani, alle giornate del FAI vedo solo italiani. Perché? Capire il luogo in cui si vive è importante, sia per le cose che non ci piacciono, che almeno possiamo decifrare, sia per riuscire a interagire meglio in quell’ambiente.

Continuo tra me il ragionamento iniziato prima di cena e mi risolvo: devo parlare dei temi trattati nel libro, ma anche di altre cose spicciole, con gli immigrati. Se è utile conoscere certe cose per chi viene come turista, lo è ancora di più per chi vive qui ogni giorno.

Lo so che dell’arte se ne frega chi deve fare salti mortali non solo per sbarcare il lunario, ma per seguire i tempi della burocrazia italiana che mettono continuamente in forse la sua permanenza in questo Paese – proprio all’ultimo incontro dei volontari in carcere un avvocato ci ha spiegato la legge che regolamenta la vita degli immigrati e i reali tempi di lavorazione della macchina burocratica, quindi ho un quadro abbastanza chiaro a riguardo. Comunque vale la pena tentare.

Mentre scrivevo il secondo libro sull’Italia, la cui bozza ho ormai terminato, avevo stilato una lista delle comunità straniere della mia zona perché volevo intervistarle riguardo la loro percezione dell’Italia. Avevo mandato a tutte una mail di presentazione e nessuno aveva risposto. Poco male, accade sempre così. Sapevo che avrei dovuto telefonare per avere un riscontro, ma mi sembrava una fatica immane dover far capire loro i miei intenti, il libro era già ricco di spunti e ho rinunciato.

Ora ci ripenso e credo sia ora di riprovare, questa volta con il libro in mano, per chiedere di avere un incontro con il loro gruppo. Se riuscissi nel mio intento so che troverei sicuramente diffidenza, ma anche tanta curiosità, in primis da parte mia.

Qualcosa devo fare perché vorrei non assistere più a scene come quelle che ho visto a Macerata per il capodanno cinese dell’anno scorso (in città c’è un importante centro culturale sino-italiano grazie alla figura di Padre Matteo Ricci, missionario di origine maceratese che visse a lungo in Cina). I ragazzi cinesi che dovevano introdurci alla loro cultura non parlavano una parola d’italiano, ci offrivano al massimo qualche frase smozzicata in inglese, davano informazioni sbagliate su cose diffusamente note (il segno dell’oroscopo cinese corrispondente a un certo anno, dato facilmente rintracciabile online) e in generale sembrano disinteressati a tutto quel carrozzone messo in piedi dal Comune per dare l’idea di aver avviato una vera integrazione.

Se non agiamo concretamente, quello che otterremo domani non saranno arabi, cinesi o russi che vivono in Italia senza conoscerla. Questo non sarebbe un grosso problema.

Rischiamo di tirare su una nuova generazione d’immigrati che non sa nulla delle proprie radici e non è interessata a conoscere la cultura del luogo in cui vive. Persone atte solo a consumare, che si sentono a disagio se non hanno indosso simboli pensati altrove, venduti per genuina rivoluzione e diffusi in tutto il mondo.

Che vivano da arabi, da cinesi, che siano profondamente russi, argentini o siriani. O se vogliono, che diventino italiani, imparino il nostro dialetto e vengano alla festa del patrono. Entrambe le scelte daranno loro un futuro, l’altra strada ci spazzerà via tutti.

Sapete, non è facile scrivere di queste cose, ancor meno farle. Sono sempre stata una persona pragmatica e mi trovo in difficoltà con chi crede negli spiriti, negli Dei, nella diete restrittive per motivi etici, nella vendita di stantie tavolette di cioccolato come mezzo per diminuire gli squilibri sociali, nella bontà intrinseca dei poveri e della musica del sud del mondo, negli UFO, nei complotti orchestrati da pochi personaggi specifici, nelle facce contrite davanti a parole chiave come modo per apparire buoni. Ho imparato a mordermi la lingua tanto tempo fa e lo faccio benissimo, scrivo questo solo per farvi capire quanto sia più difficile per me che per altri fare quello che sto facendo. Se la mia vita fosse stata più reattiva rispetto alle mie esigenze e non fossi stata costretta a fare per lungo tempo cose che umiliavano la mia intelligenza forse non sarei mai arrivata a fare tutto questo, molto più probabilmente sarei stata una stronza che si accontentava di mettere in mostra un’intelligenza crudele e sarcastica.

Ogni sera vado a dormire pensando di essere sempre più libera di fare cose che hanno per me un senso. Ogni mattina mi sveglio vedendomi come una folle invischiata in progetti di poco valore economico e incapace di tornare a un più pratico stile di vita. A seconda di chi mi sta di fronte, prevale l’una o l’altra lettura e so che solo una vittoria concreta potrà far pendere il giudizio di tutti verso la prima ipotesi. Non pensavo fosse così difficile fare quello che per me ha senso: scrivere, parlare con le persone, cercare di capire. Detto così sembra un proposito sensato, ma quando lo metti in atto è impossibile non sembrare fuori luogo. Anche le persone che virtualmente ti lodano, in carne e ossa prendono le distanze.

Se così funziona, così sia.

Adesso ci penso e poi chiamerò le varie associazioni. Vediamo un po’ se riesco a cavarne qualcosa da questa idea.

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