Atei in trincea
- Red in Italy
- 26 ago 2016
- Tempo di lettura: 4 min
Ecco un pezzo scritto diversi mesi fa. L’entusiasmo della chiusa oggi lo condivido solo in parte, visto l’ostruzionismo educato che vivo a ogni incontro del gruppo. Ma so comunque di aver fatto la cosa giusta.

L’evangelizzazione è iniziata
Oggi ho fatto la mia prima opera d'evangelizzazione. È accaduto sotto un crocefisso, alla riunione con il gruppo dei volontari Caritas.
«Vi posso rubare un minuto per dire una cosa?» l'ellisse di persone di cui faccio parte si mostra disponibile e io proseguo «Vorrei parlare dell’elefante nella stanza, che sono io. Credo di essere l’unica qui che non è credente.»
«Cosa? Non sei maggiorenne?» quello che sarà il mio compagno nelle visite in carcere, posto in diagonale rispetto a me, cerca di arginarmi con una battuta che fa leva sul suo essere vecchio e quindi, presumibilmente, un po’ sordo.
«Non riesce neanche a dirlo ateo» scherza con me la signora che mi siede di fianco.
«Ma guarda che anche io non sono praticante.» tenta la donna di fronte a me.
«No, io non sono proprio cristiana. Sono atea.»
«Ah» poi riprova «Ma io sono anche vegetariana, quindi …»
«Non c’entra niente.» le chiudo definitivamente la bocca con garbo, mentre prendo nota degli occhi attenti dell’ex professore di università che mi guardano in silenzio, sulla sinistra.
«Vorrei parlarne perché magari se facevo parte di un altro gruppo religioso sarebbe stato più semplice, i credenti spesso parlano degli atei con la stessa cognizione di causa che se si trattasse di alieni.
Sono qui perché non c’era altra scelta. Ho anche interrotto una volta la mia formazione, Anna lo sa» dico facendo riferimento alla coordinatrice della Caritas che sino a pochi mesi fa supervisionava tutte le attività del gruppo «Poi ho deciso di continuare, proprio perché non c’era alternativa se volevo fare volontariato in carcere. Volevo lasciar perdere non perché ho problemi a stare con persone credenti, ma perché capisco che siete un gruppo religioso e che quindi ci sarebbero stati dei momenti in cui avremmo potuto sentirci a disagio.»
Riesco a parlare con calma, la rabbia di poche ore prima si è dissolta. «Per me non è un problema, so che sono ospite a casa d’altri e se fate una preghiera in gruppo penso ai fatti miei, non mi dà fastidio. Magari vorrei che non si cercasse di chiudere la questione con battute come “adesso preghiamo e se c’è qualcuno che non crede non gli fa certo male” perché io esisto.»
Mentre pronuncio le ultime due parole realizzo che sono 35 anni che aspetto di dirle ai miei connazionali cattolici.
«Ma stamattina è andata così perché c’era lui.» Si giustifica il capo gruppo dell’altro carcere, quello in cui non andrò, riferendosi al prete che ha introdotto l’incontro e che ci ospita oggi.
«Ne ho voluto parlare perché la stessa cosa è capitata l’altra volta, prima del pranzo, quindi mi sembrava il caso di affrontare la questione apertamente.»
«Mi sembra che siamo stati sempre rispettosi.» prosegue lui, cortese ma intimamente infastidito.
«Certo, è per questo che ho continuato a venire. Magari ci saranno occasioni in cui ci troveremo con altri che non mi conoscono e potrei trovarmi in difficoltà» dico facendo riferimento agli incontri nazionali e regionali che so essere parte del loro calendario di formazione « Almeno tra noi, all’interno del gruppo, vorrei che le cose fossero chiare. Ho creduto meglio parlarne, così rompiamo il ghiaccio e ci conosciamo meglio.»
«Che poi la Caritas di Ancona è quella più laica che c’è.» Tenta ancora la vegetariana.
«Sì, sì.» Assente la sua vicina.
Restiamo un po’ in piedi a chiacchierare e io mi sento bene, sensazione che prosegue in macchina e poi a casa. Il dolore riprovato dopo tanto tempo, ma ancora così forte, non volevo più affrontarlo.
Non credevo sarebbe andata così, ma quando l’introduzione del prete non si è limitata a parlare del volontariato dal punto di vista cristiano, ma ha dovuto annullare il mio esistere, io mi sono spenta. Non volevo più sentire quelle stronzate, il buonismo che nasconde un razzismo inestirpabile, i cristiani che sono buoni finché hanno il coltello dalla parte del manico, colonizzatori sempre sul piede di guerra. Non volevo più sentirmi così, osservata da tutti nella stanza, le braccia lungo il corpo mentre loro si fanno il segno della croce.
Ma soprattutto non volevo più sentire quelle parole “Preghiamo, e se qualcuno non crede non gli farà certo male”, unito a considerazioni infantili su ciò che siano gli atei e cosa sia buono nei cristiani (la certezza di avere il rifugio in Dio, una stampella che non ha niente a che fare con un percorso spirituale consapevole).
È stato tremendo, più di quello che da fuori poteva sembrare anche a me. Ma poi il prete missionario ha ricordato principi sacrosanti, che mia madre mi ha inculcato sin da piccola, che se ravvivati non mi possono che far bene.
Loro credono così di evangelizzare il prossimo, un essere infantile che per cattivi incontri si è allontanato dalla fede. Io vedo solo una parte fondamentale della mia cultura, il cristianesimo, che è per primo filosofia e fa parte di me che sono italiana. E quella parte che non cerca la vendetta quando il prossimo fa del male io l’apprezzo, la sento in me e non è altro che cristiana.
Ci parlerò con il prete, che ha viaggiato in altri Paesi, e gli chiederò perché, se lui lo sa, le altre chiese premono tanto sull’amore verso la vita e vogliono la morte per chi sbaglia. Voglio capire, tra questa gente, e, anche se con dolore, crescerò ancora un po’.
Non importa se bigotti o illuminati, è innegabile che il tempo che dedicano per gli altri è un esempio positivo, da cui io posso solo imparare.
Finalmente non ho più bisogno di barricarmi dietro a una bestemmia per rivendicare il mio diritto di essere italiana e non cattolica. Forse smetterò di dirle, chissà.
Oltre a questo, è successa un’altra cosa bella, che desideravo da tanto: ho testimoniato cos’è un ateo. Ancor più faranno le mie azioni, speriamo sensate, in futuro.
Era da tanto che desideravo esistere anche sotto questo punto di vista. Evviva.



















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